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Operò nella Toscana di fine XIX secolo, particolarmente nella zona del Monte Amiata. Per il suo visionarismo e per la sua tragica fine, è stato chiamato il Cristo dell'Amiata (o profeta dell'Amiata). Al suo nome è legato quello del cosiddetto Giurisdavidismo (o Chiesa Giurisdavidica). Nacque ad Arcidosso, sul Monte Amiata, nella povera famiglia contadina di Giuseppe e di Faustina Biagioli. Dal 1873 egli stesso mutò il proprio cognome da Lazzeretti in Lazzaretti, in riferimento non solo al personaggio evangelico, ma anche a quello del romanzo di Giuseppe Rovani Manfredo Pallavicino, un Lazzaro Pallavicino preteso discendente dei re taumaturghi di Francia.
Ben presto racconta di sogni e visioni, che si alternavano ad una vita dissoluta. Visioni che al momento non modificarono una vita di ordinaria povertà e da giovane scapestrato, che conduceva come barrocciaio, trasportando terra di Siena da Arcidosso a Grosseto e Siena e anche fino a Roma. Si sposò nel 1856 e ebbe cinque figli, nel 1859 si arruolò nella cavalleria piemontese, prendendo parte nel 1860 alla battaglia di Castelfidardo contro le truppe pontificie. Egli racconta che da visioni avute verso il 1868, ebbe l'annuncio di una grande missione da compiere, che egli avrebbe dovuto esporre al papa, per poi condurre una vita di eremitaggio e di predicazione. La sua missione presso Pio IX, nel 1869, un anno prima della presa di Porta Pia e della fine del potere temporale, non ebbe alcun successo, ma egli si ritirò egualmente nell'eremo quattrocentesco, abbandonato, di Sant'Angelo, presso Montorio Romano. Qui maturò la mistica imposizione simbolica che distinse successivamente il suo credo e il suo operato: il segno di due lettere C, di cui la prima rovesciata, e di una croce, emblema rappresentativo di una futura chiesa cristiana.
Tornato ad Arcidosso e raccolti fra la popolazione di quelle montagne numerosi seguaci, in breve tempo, dal 1870 al 1872, fondò tre istituti religiosi con il consenso delle autorità ecclesiastiche che videro in lui «lo strumento per una resistenza culturale, popolare, al nuovo Stato italiano».[1] I tre edifici furono costruiti sulle pendici del monte Labbro, sulla cui cima sorse una nuova chiesa: la Santa Lega aveva finalità assistenziali, la Società delle famiglie cristiane prevedeva che i suoi aderenti lavorassero e mettessero in comune i loro beni secondo lo spirito originario delle chiese cristiane, mentre il Pio Istituto degli eremiti penitenzieri e penitenti era un'organizzazione strettamente religiosa, impregnata dello spirito millenaristico e messianico proprio della tradizione gioachimita, che attendeva l'avvento di un prossimo regno dello Spirito Santo.
Predicò nei piccoli borghi di Zancona e delle Macchie e poi fece proseliti in tutta la Toscana e persino in Francia, dove si recò nel 1873: il suo pensiero si collegava infatti ad un filone rivelazionista e messianico tipicamente francese, che auspicava la restaurazione della monarchia capetingia. Si proclamava "Re dei re" e Unto del Signore, mettendo in atto un carisma di grande rilievo. Dal suo eremo sull'isola di Montecristo, dove si ritirava più volte, un giorno ritornò ad Arcidosso con una bandiera rossa sulla quale era scritto La Repubblica è il Regno di Dio. Il suo visionarismo socialista si assumeva quindi il compito di guidare l'umanità verso l'era dello Spirito Santo, improntata alla legge di Diritto dopo che si erano concluse l'era del Padre, caratterizzata dalla legge di Giustizia da quando Mosè aveva ricevuto i comandamenti, e l'era del Figlio, ovvero Gesù e l'era della legge di Grazia.
La sua comunità, chiamata Giurisdavidica, ossia del diritto di Davide, sembrò assumere i caratteri di un socialismo mistico e utopistico: egli prese le difese della Comune di Parigi e raccolse consensi anche da figure che, nella Chiesa, avevano posizioni sociali favorevoli ai ceti più deboli e diseredati, come San Giovanni Bosco, che lo ospitò e lo sostenne. In realtà il Lazzaretti, ospitato all'Oratorio, fu a colloquio con don Bosco di ritorno da Roma; quest'ultimo confidò poi al conte di Stappul di non trovare in lui "nulla, proprio nulla di straordinario..." (Memore Biografiche, X, 1144).
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