Giosuè Carducci detto da Gino Cervi
a cura di Carlo Salinari
- Piemonte
- Davanti a San Guido
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Collana letteraria documento
realizzata da Nanni de Stefani per la CETRA
CL 0410 - matrice M.S. 17 L. 27/28 del 12 dicembre 1955
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Si narra che il conte della Gherardesca, signore di Bogheri e dei dintorni si sia astenuto dall’abbattere i famosi cipressi - nonostante che ve ne fosse bisogno - perché « Carducci gli amava » e per non sciupare la fisionomia del grande viale, « ormai celebrata ». È questo un episodio fra i tanti della meritata popolarità della poesia del Carducci, che appunto sul metro del paesaggio maremmano e dei ricordi d’infanzia misura l’inutilità degli anni trascorsi negli studi e nelle polemiche, nella ricerca della celebrità e della gloria, nella vana speranza di poter raggiungere una umana felicità. Abbiamo, cioè in ‘Davanti a San Guido’ una situazione tipica del Carducci maggiore, del Carducci più schiettamente poeta: da una parte la nostalgia di un’infanzia libera e ribelle, delle corse, delle sassate, delle cacce ai nidi di passeri e di rosignoli, e del paesaggio che quell’infanzia richiama, odoroso di boschi e di mare, irto di cespugli, assolato e silente, e dall’altra la tristezza del tempo presente con le sue meschinità, le « eterne risse » e « i rei fantasmi » che nascono dal cuore dell’uomo, « battuto dal pensiero ». Simbolo quasi di questa situazione e di questo contrasto la figura della nonna Lucia, « alta, solenne, vestita di nero », e la favola che raccontava al poeta bambino: di colei che cerca il suo amore perduto e consuma sette paia di scarpe e logora sette verghe di ferro e riempie sette fiasche di lacrime per ritrovarsi di fronte alla morte: « tu dormi alle mie grida disperate. Il gallo canta e non ti vuoi svegliare ». La favola che solo ora il poeta - adulto e savio - comprende nella sua profonda verità: quella del vano affaticarsi dell’uomo dietro illusioni, fantasmi e chimere che nascondono solo una irraggiungibile felicità.
Posteriore di parecchi anni l’ode ‘Piemonte’, concepita a Ceresole nelle Alpi Occidentali nel luglio del 1890 e completata a Bologna nell’ottobre dello stesso anno. Essa appartiene alla fase di decadenza e di stanchezza della poesia carducciana, quando il poeta divenuto da repubblicano monarchico, da radicale conservatore cercava di conciliare dentro di sé le antiche convinzioni e i grandi amori del suo periodo più felice con le nuove persuasioni. Così la vista del Gran Paradiso e delle Alpi lo porta a salutare il Piemonte e le molte città bagnate dai suoi fiumi: Aosta e Ivrea e Biella e Cuneo e Torino. Ma soprattutto Asti repubblicana, patria di Vittorio Alfieri che per primo richiamò gli Italiani agli ideali dell’indipendenza e della libertà: e insieme figura del primo re d’Italia: Carlo Alberto, che riscatta le incertezze e gli errori della sua giovinezza con la pagina di gloria del ’48 e con l’espiazione della sconfitta di Novara e dell'esilio. Il finale dell'ode, con le anime dei grandi eroi del
Risorgimento che accompagnano quella del re al trono di Dio e implorano dal Signore che restituisca l'Italia agli Italiani, è l'espressione del sogno carducciano di poter conciliare le opposte tendenze e vedere tutti gli Italiani uniti nell'amore della Patria. È certo che il decoro delle immagini e la ricchezza della lingua non riescono a nascondere, in quest'ode, una certa aridità di sentimento, e l'eloquenza della rievocazione a nascondere, in quest'ode, una certa aridità di sentimento, e l'eloquenza della rievocazione storica non riesce a superare una sensazione di freddezza e di distacco. E pure la figura di Carlo Alberto, italo Amleto per tanti anni bestemmiato e pianto, triste nonostante la vittoria di Goito perché non sa dimenticare la spedizione del Trocadero e le persecuzioni dei patrioti, non è priva di fascino di una intima commozione. Come le figure del Carducci più grande.
Carlo Salinari
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