I nomi dei generali ce li hanno insegnati a memoria a scuola, quando a scuola ancora si imparava qualcosa a memoria. Ce li hanno insegnati a scuola, quando a scuola ancora si insegnava la storia. I nomi dei generali erano: Cadorna comandante supremo, naturalmente, poi Badoglio, Capello, Giraldi, Andrea Graziani, il generalissimo della vittoria, Armando Diaz. A scuola, nella mia scuola, non erano più i tempi dei grandi eroi senza macchia e senza paura, ma pur ci raccontavano di persone capaci, oneste, forse severe ma giuste; del resto a scuola, nella mia scuola, si raccontava ancora di una guerra vittoriosa. Che non ci fosse molto da festeggiare per quella vittoria, qualche maestro sottovoce se lo faceva scappare, qualche crepa si intravedeva, ma nulla di più. Nei racconti dei nonni, dei generali italiani non si diceva nulla, di quelli austroungarici solo qualche nome in ordine sparso. Che la prima guerra mondiale fosse stata cosa tremenda lo sapevamo, quanto tremenda non lo abbiamo mai immaginato. Nella sua orazione civile, La Grande Guerra Meschina, un racconto duro, commovente, altissimo, Alessandro Anderloni toglie ogni velo dalla memoria e tutto appare così chiaro, che a distanza di cento anni restiamo sgomenti. Quando le ultime note di Stelutis alpinis, cantate con superba bravura da Raffaella Benetti, accompagnata dalla fisarmonica virtuosa di Thomas Sinigaglia, guidano al silenzio, dopo un primo momento di smarrimento provi una voglia irrefrenabile di uscire e strappare i nomi dei generali da tutte le piazze e le strade d'Italia, vorresti che non te li avessero mai insegnati quei nomi, vorresti che fossero stati consegnati all'oblio con il marchio dell'infamia. Sì, condannato all'infamia chi rese legale la decimazione, ovvero l'estrazione a sorte di un certo numero di soldati da far fucilare e la applicò su larga scala. Condannato all'infamia chi, nella circolare del 28 settembre 1915 scrisse: «Si uccidano a sangue freddo, sul posto, i soldati che si dimostrino codardi in faccia al nemico.» Quelli chiamati genericamente soldati erano bambini di diciotto anni o uomini con una famiglia da sfamare, chi aveva cinque, chi sette figli, tutti abbattuti a sangue freddo come nessun animale viene abbattuto. Perché? Parola ripetuta da quei padri, ripetuta da quei figli: perché mi fucilate? Cosa ho fatto? Perché io? Parole ripetute da Alessandro Anderloni e anche la voce, pur addestrata dell'attore, sembra incrinarsi e forse è solo l'effetto della luce, ma a volte ti sembra davvero che le lacrime vincano anche lui come vincono il pubblico. E le puoi vedere le lacrime, perché Anderloni non vuole la sala al buio, vuole guardare negli occhi chi ha di fronte, vuole vedere a quale profondità arrivino le sue parole. E ti resta un rammarico, il rammarico di avere già più di cinquanta anni, perché vorresti che queste cose, in questo modo, te le avessero raccontate quando eri bambino. Ai bambini siamo debitori di verità sulla guerra, su ogni guerra e Anderloni, la verità ce la sussurra, ce la urla, ce la piange stilla a stilla, a bacche rosse di sangue. Chi c'era sabato otto novembre a Luserna non dimenticherà più. Chi c'era, non dimenticherà mai il soldato Ortis, il solo a non avere il proprio nome sul monumento del suo paese. Non siano mai dimenticati tutti i soldati Ortis, i soli degni di essere celebrati. Alessandro Anderloni rende a loro giustizia e a noi nuova consapevolezza. Grazie.
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Song" e "La leggenda del soldato morto", con la musica di Kurt Weill, canti come "Il disertore" (Vian), "Garbato amore mio" (Fossati)
e "Poca voglia di fare il soldato" (Finardi), fino alle struggenti melodie popolari natenel primo Dopoguerra come "Stelutis Alpinis" dal Friuli.
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